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CCW diario di bordo – Je est l’autre

CCW diario di bordo – Je est l’autre

27 ottobre 2022 – Il violoncello, strumento musicale del XX secolo 

Je est l’autre

Chi era in sala, ieri, al Polo del ‘900 di Torino, ricorderà bene. Il silenzio; e poi un entusiasmo che scoppia nell’applauso, che fluisce nella cascata di questo suono congiunto, che scorre per tutti e tutte, come all’apertura di una diga. Ma cos’è successo prima?
Due eventi, uno dopo l’altro, a comporre la serata.

Il primo, condotto dalla musicologa Angela Idea De Benedectis, è la storia di una grande dedica. Quella che, negli anni ’70, il violoncellista Mstislav Rostropovic fa al direttore d’orchestra e mecenate svizzero Paul Sacher: un regalo che, inizialmente, ha la forma di quaderno di articoli in suo onore e che diventa presto un album di composizioni basate su una sequenza di sei note, un esacordo, che corrispondono alle lettere del nome SACHER – dove, seguendo la corrispondenza tra le note musicali e l’alfabeto, S sta per Mi bemolle, A per La, C per Do, e così avanti, Si bequadro, Mi, Re; l’incontro, inoltre, è stato accompagnato dalle opere della pittrice Giulia Cardini, ispirate ai brani.
Il secondo evento, intitolato Oggi, Musiche per il futuro, ha riguardato brani di recentissima composizione, eterogenei tra di loro come solo il presente sa essere. Ed eterogenea era anche l’età delle persone in sala, dai compositori agli interpreti al pubblico in ascolto. E forse è stata proprio questa la chiave. L’ascolto dell’altro, la disposizione a riconoscerlo e ad accettarlo, in un interesse autentico che, senza troppa sorpresa, ha dato vita a un movimento di reciproca identificazione. Questo, a partire dalla vicenda di Sacher, che non richiedeva alcuna preparazione sul tema per accogliere l’ascoltatore e per ricevere accoglienza a sua volta; infatti tutto stava – e sta, quando si parla di storie – nella forza narrativa. La stessa che ha guidato la mano di Giulia Cardini nella creazione dei suoi dipinti, che ha incantato i fondatori dell’Archivio Sacher, che ha commosso noi, il pubblico, di fronte a questa storia – anche se, magari, abbiamo conosciuto Sacher solo qualche minuto prima. Perché identificarsi in un racconto (reale o fittizio) significa appropriarsi di una parte di noi, un tratto identitario che riconosciamo dentro un personaggio e che rendiamo nostro stesso simbolo. È come condurre una minuziosa ricerca di tutti i nostri sosia, per raggiungerci attraverso ognuna delle nostre possibili, personali variazioni. Una collezione fatta di personaggi storici o inventati, che si completa completandoci. È un gioco che rende vera quella celebre affermazione di Arthur Rimbaud, Je est un autre. “Io è un altro”.
Ascoltiamo questa frase. Come stride all’orecchio. È uno sconvolgimento linguistico, non ha senso. Rimbaud avrebbe potuto dire “Io sono un altro”, e avremmo capito che faceva riferimento a un’immedesimazione. A un soggetto che si cala nella parte di un altro soggetto, rimanendo però uguale a sé stesso. Insomma, non quello che lui voleva davvero intendere. Perché dire “Io è un altro”, significa mettere in questione la stessa soggettività, se non addirittura negarla. È decentrare il soggetto, ammettere che non è un’entità stabile e solida.
Abbiamo chiesto un prestito a Rimbaud, che elabora questa convinzione riflettendo sul modo in cui si fa poesia, e riconosce che la sua prima ispirazione poetica non è un io armonico e definito (io penso, io faccio, io provo), ma un io che è Altro, un io che si getta nella multiformità del reale, nel caos, nell’abisso della sua identità frammentata.
È vero, questo è un tuffo rischioso. Pensiamo alla storia di Madame Bovary o all’autoinganno di Don Chisciotte. L’identificazione può essere una soluzione di fuga da sé stessi. Ma, al contempo, concepire il proprio sé attraverso la mediazione dell’altro è anche il modo più autentico per scoprirsi. In questo senso, rivelazione e trasformazione sono inscindibili, si manifestano contemporaneamente. E il gesto d’accogliere, di riconoscere e di vivere la differenza diventa necessario alla stessa identità personale.
E allora, io – interprete, è un altro – compositore.
Pensiamo ancora una volta alla forza narrativa che canta per noi, che ci ammalia e ci richiama, ci risucchia e ci porta con sé. È la stessa forza narrativa che innamora l’interprete di fronte allo spartito del compositore; se pensiamo a questa serata, sappiamo di aver visto e ascoltato esattamente questo. I giovani violoncellisti e le giovani violoncelliste hanno suonato brani in cui vedevano brillare tracce della loro stessa identità, e che hanno restituito con onestà, con la serenità intima di chi si è finalmente incontrato.
E merito di questo incontrarsi è anche, come notava il violoncellista e direttore artistico Claudio Pasceri, una progressiva perdita, durante gli anni, del concetto di Scuola nazionale, di tendenza, di rigore. È stato destituito il campo di battaglia dove si scontravano l’uno e l’altro, e su quello stesso campo il tempo ha steso la sua coperta vegetale, come sempre succede quando l’uomo smette di accanirsi su un luogo. La vita si è insinuata tra le rovine dell’ideologia musicale e quel campo è diventato un giardino. Un ecosistema in cui la differenza è nutrimento, identità in divenire, è pensiero futuro.
Sì, questo vale per la diversità dei brani che si sono susseguiti durante la serata – lontani dal punto di vista compositivo, geografico, temporale –, ma anche per la diversità che incontriamo tutti i giorni, dentro e fuori di noi, anche solo nel tempo di una passeggiata, o di un respiro.

 

GIULIA BINANDO MELIS

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