CCW diario di bordo – Un orecchio bambino
28 ottobre 2022 – Quattrocento anni di musica contemporanea
Un orecchio bambino
Entrano in fila nella Sala di Diana, in silenzio, guardando dritto per non tradire l’emozione – potrebbe bastare lo sguardo di una persona speciale che è lì per loro, che questa sera è pubblico oltre che madre, padre, amico, fratello, cugina. Sono quattro, due bimbi biondi con gli occhiali quadrati, e due ragazzine alte e brune. Sono Daniel Beschieru, Luca Mosca, Rebecca Puddu e Marta Salituro, indossano le magliette rosse dell’Accademia Suzuki di Torino e sono il quartetto di violoncelli che, insieme al violoncellista Alexander Baillie e il controtenore Danilo Pastore, suoneranno l’ultimo brano in programma per la serata, La ragione di un prato di Riccardo Perugini, vincitore della Call For Scores organizzata quest’anno da EstOvest Festival. Si siedono, respirano, sono concentratissimi. Guardano Baillie con l’archetto pronto, si comincia.
Guido Barbieri, musicologo e voce storica di Radio3, ne ha parlato proprio all’inizio, durante l’introduzione. Ha raccontato di Luca Mosca, in particolare, che durante le prove – sui social del Festival c’è un video di questa piccola intervista, vale la pena di andare a sbirciare – suona una figura sonora, molto semplice, data dall’alternarsi delle dita sulla tastiera, mentre l’archetto passa sulla corda: il suono che ne viene fuori è atipico, non ricorda quello canonico del violoncello, così rotondo e cantabile. È diverso, a Luca piace, dice che è il suono più bello che ha imparato, lo fa, ancora. Non gli importa di sapere come si chiama, se è antico, moderno, contemporaneo. Non ha bisogno di classificarlo, di mettergli un’etichetta. Ci mostra, nota Barbieri, quanto alla fine, le nostre categorie forse non servano a molto.
Allora pensiamo al titolo della serata: Quattrocento anni di musica contemporanea. Quattrocento è l’età del violoncello, approssimativamente, che come tale debutta sulla scena musicale verso gli anni ’20, ’30 del 600, per arrivare ai giorni nostri. Ma l’aggettivo “contemporanea”, che cosa racconta? Prima del concerto, Claudio Pasceri e Guido Barbieri hanno discusso proprio di questo. Parlare di musica contemporanea vuol dire fare riferimento a un genere musicale (come dire, ad esempio, musica barocca o rinascimentale), ma la classificazione non regge, perché si tratta di un genere che, semplicemente, non esiste. Se pensiamo alla musica di oggi, ci rendiamo conto della grande ricchezza omogenea che contiene, anzi, che è impossibile da contenere. Insomma, un nome non basta. È vero, la prima e la Seconda guerra mondiale sono state una voragine, un gorgo che ha inghiottito ogni certezza, compresa la musica di tradizione classica, che nel secondo dopoguerra non è stata più in grado di esprimere una necessità sociale, un’identità. Ed è lì che arriva il nome, quell’aggettivo che spezza il tempo in due e divide tra un prima e un dopo. Ieri, la musica classica, oggi, la musica contemporanea.
Ma la musica, dice Barbieri, è sempre stata contemporanea. A se stessa, all’epoca che attraversa, alla sensibilità di un pubblico che l’ha capita o non l’ha capita. Il punto è che si tratta della musica del nostro tempo. Quella che ci cattura ascoltando il violoncello di Baillie o la voce di Pastore, che mentre canta il carme di Catullo, Atque in perpetum frater ave (E per sempre, fratello, addio), raggiunge la sala intera: ogni persona, perfino ogni oggetto ascolta le parole esatte di un incantesimo di suoni, che si esaudisce chiudendo gli occhi delle persone, assorte, e risvegliando le tele di Jan Miel alle pareti e le figure degli stucchi sui soffitti. Per qualche minuto, è una magia dell’inverso, che presta la quiete alle persone e l’anima agli oggetti, mostrandoci come la musica disponga del mondo intero.
La sua forza prodigiosa risiede nella bellezza del suono, in questo obiettivo primo da ricercare attraverso la sperimentazione, la fantasia, l’immaginazione. È un gioco. Un divertimento di bimbi e di gente ormai cresciuta – non del tutto, per fortuna. Perché la nostra parte piccina sa come salvarci, sa dire la verità. L’ha indovinato da tempo Gianni Rodari, in tanti dei suoi libri e, se parliamo di suoni e di ascolto, in uno in particolare: si chiama Parole per giocare, è del 1979, e contiene una poesia speciale intitolata Un signore maturo con un orecchio acerbo. Fa così:
Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato,
tutto, tranne l’orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e poter osservare il fenomeno per benino.
‘Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età,
di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?’.
Rispose gentilmente: ‘Dica pure che son vecchio.
Di giovane mi è rimasto soltanto quest’orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire
le cose che i grandi non stanno mai a sentire’.
– GIULIA BINANDO MELIS