CCW diario di bordo – Liuteria come arte poetica della lentezza
31 ottobre 2022, Paesaggi Luminosi
Liuteria come arte poetica della lentezza
“L’osservazione artistica può toccare una profondità quasi mistica. Gli oggetti che essa investe perdono i loro nomi. Ombre e luci formano sistemi e presentano problemi affatto speciali, che non rilevano di nessuna scienza, né procedono da nessuna prassi, ma acquistano tutta la loro esistenza e il loro valore da certi accordi singolari fra l’anima, l’occhio e la mano di chi è nato per coglierli in sé e per produrli a se stesso”.
Sono le parole del filosofo Paul Valery, e tornano alla mente di fronte a quel grande corpo sonoro che è l’Orchestra Filarmonica Vittorio Calamani. I musicisti e le musiciste sul palco dell’Aula Magna del Politecnico di Torino caricano l’aria delle note di Sibelius, Firsova, Mendelssohn, Sarti, Warlock; anima, occhio e mano si influenzano reciprocamente, dando vita a un unico gesto musicale. Sono perfettamente coordinati, precisissimi coi loro strumenti quanto lo sono i violoncellisti Anssi Karttunen e Claudio Pasceri, che li raggiungono presto per Le Soleil de Conques, il secondo dei brani programmati per Paesaggi Luminosi, il concerto di chiusura di EstOvest Festival 2022.
Eppure, la riflessione di Valery non vale solo per chi suona uno strumento, ma anche per chi lo crea. Avviciniamoci, per esempio, al violoncello di Anssi Karttunen. È uno strumento che cattura l’attenzione: dalle sfumature del legno a una certa grazia che solo il tempo regala – per fermarsi a una valutazione superficialissima – ci mostra di essere già appartenuto a un’epoca passata. Infatti è stato creato nel 1670 dal grande liutaio Francesco Ruggeri.
Ed è proprio su questo verbo che vorrei porre l’attenzione: “creare”. Considerando la sua etimologia arriviamo alla radice sanscrita kar, ovvero “fare”. Un termine molto simile alla radice zenda kere e a quella greca κραίνω (kraino), con cui condivide lo stesso significato. E questo fare, per la precisione, si riferisce a qualcosa che prima non era reale; è un fornire dell’esistenza, un produrre dal nulla che rimanda tanto a un altro verbo greco: ποίησις (poiesis), il “fare dal nulla” che appare la prima volta in Erodoto col senso di “creazione poetica”. E allora, mi si conceda il salto, che l’arte liutaia non sia così distante dalla poesia?
Durante la giornata di sabato 29, in collaborazione con il Politecnico di Torino, si è svolto l’incontro Architetti del suono, che ha visto alternarsi il liutaio e restauratore canadese Bernard Neumann, i compositori Antti Auvinen e Vittorio Montalti, e il docente di acustica Marco Masoero. Si è parlato del suono come fenomeno acustico, musicale, percettivo; ma la conversazione è proseguita anche dopo la fine dell’evento, perché in mezzo al pubblico di studenti, musicisti, appassionati e curiosi, c’era anche un’altra persona: la liutaia cremonese Alessandra Pedota. Grazie alle parole scambiate insieme a lei e a Neumann, la frase di Valery ha riacquistato energia. Per costruire uno strumento, infatti, ci va cura (mano), attenzione (occhio), e una certa quantità di intuizione (anima). Perché se la liuteria è un mestiere che si impara, il liutaio è un’identità in cui si nasce, e che diventa fondamentale nel momento in cui la tecnica si mette da parte, si supera, per arrivare a quel luogo cieco fatto interamente d’ascolto e di sapere istintuale. È quella che Pedota ha chiamato la “relazione emotiva con il legno”. Un rapporto personale dove le parole finiscono e le anime – della liutaia, dello strumento – iniziano a dialogare in una lingua privata.
Un movimento che ancora una volta appare in tutta la sua poesia, che si afferma lungo il processo di costruzione, ora dopo ora, nel rispetto di un tempo lento e meditato. E allora, torniamo ancora una volta su Valery, che riferendosi alla creazione poetica parla di una “lunga impazienza” che rimanda a un ritmo naturale – un ragno che tesse una tela, una foglia che cresce, si scolora e secca abbandonandosi al vento autunnale. “Questo paziente operare della natura era imitato, un tempo, dall’uomo”, dice il filosofo. “Miniature, avori profondamente intagliati, pietre dure levigate e scolpite, smalti e pitture ottenute dalla sovrapposizione di una serie di strati sottili e trasparenti”. Eppure, con la modernità “tutte queste produzioni di una fatica industriosa e tenace sono praticamente scomparse, ed è finito il tempo in cui il tempo non contava. L’uomo odierno non coltiva più ciò che non si può semplificare e abbreviare”. Oggi è solo “Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza. Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più avanzato, che si manifesta in politica, in arte, e nei costumi”.
Se il progresso implica un consumo sfrenato, un tempo a digiuno di tempo, allora l’arte liutaia è un modo per fermare questo terrorismo della velocità. Un gesto che non può non infondersi anche nell’anima degli strumenti che crea e in quella di chi li suona. E allora è facile apprezzare la lentezza della pausa tra la fine di un brano e l’inizio del successivo, la calma di un musicista che si prende un momento per posizionare gli spartiti, la tranquillità di un’orchestra filarmonica che prima di suonare accorda gli strumenti sul palco senza preoccuparsi dell’impazienza di un pubblico viziato, abituato a essere costantemente intrattenuto dal performare senza tregua degli eventi commerciali.
EstOvest Festival si conclude in un applauso prolungato, nella quiete di una promessa mantenuta. E allora grazie a chi ha voluto questo tempo, a chi ne ha goduto, a chi lo restituisce nella poesia lenta che è racchiusa dentro ogni valido strumento e in ogni valido ascolto.
GIULIA BINANDO MELIS